Festeggiamernti
La "Calata", storia di uomini e devozione: un commovente e avventato atto d’amore e fede.
Calatabiano e il suo Santo, un rapporto intimo e profondo, ma allo stesso tempo energico e vigoroso. Un giorno lunghissimo, una festa senza tempo, un termine ben preciso: "Calata". Tutto il resto non conta, perlomeno da queste parti. Ogni anno, da secoli ormai, il sabato antecedente la terza domenica di maggio, Calatabiano rinasce a nuova vita. Già la mattina è un turbinio di emozioni. È un’alba diversa, attesa, sentita. I calatabianesi scalano il loro "monte materno": c’è chi porta dei fiori, soprattutto garofani (serviranno da lì a breve), e chi scioglie un voto, salendo a piedi nudi nonostante i gradoni, la polvere, la pendenza. San Filippo aspetta con ansia il suo popolo, la sua gente, i suoi figli prediletti. Il "Siriaco" è lì, benedicente, fiero sul trono-altare della chiesa del Santissimo Crocifisso, luogo accogliente e familiare, impregnato di storia e ricordi. La Santa Messa, il bacio alle reliquie, poi il rito dell’infiorata, o meglio, della "vestizione": uomini e donne, ragazzi e anziani, una Vara da agghindare con minuziosa scrupolosità. Un gruppo di fedeli affaccendati adorna (con garofani, rose e nastrini colorati, le cosiddette "misure") il fercolo che accoglierà il Trace esorcista. Finito il lavoro, è il momento della "traslazione": il busto reliquario del Santo attraversa la navata, tra applausi, invocazioni e lacrime, svettando fra i devoti, fino alla Vara, dove verrà "vestito" dei paramenti sacerdotali (la pianeta e il vangelo, ma anche la croce e l’aureola, simboli di santità). È quasi mezzogiorno, minuto più minuto meno: inizia l’attesa! Nel pomeriggio, il "Monte Castello" si trasforma in un formicaio impazzito. Fedeli, turisti e semplici curiosi si mischiano tra le sterpaglie e i costoni rocciosi del colle, mentre i portatori, accompagnati dal Parroco e dal Sindaco, cominciano la loro lenta e riflessiva risalita verso la chiesa. Ad attenderli c’è Filippo, impaziente ed elegante nel suo fercolo dorato e luminoso. I colpi di mortaio affettano il tempo, bucando l’aria ogni quindici minuti. Fino alle 18.30, quando il Capovara, perentorio, rompe gli indugi: "Isamu!" (alziamo).
Si parte! Dal portale principale del SS. Crocifisso, con l’antico maniero sullo sfondo e l’Etna a fare da cornice, sbuca il taumaturgo "di Agira", sorretto dai suoi uomini (in maglia rossa, gialla o in verde, i colori del Santo che si alternano di anno in anno). Gli applausi e gli incitamenti dei presenti, che accompagneranno i portatori lungo tutto il tortuoso tragitto, rompono il silenzio: tre colpi di cannone e la Vara si precipita giù senza esitazione alcuna. Una folle corsa, tra macchie e ostacoli naturali. Filippo supera il primo, largo tornante, costeggiando a spron battuto l’antica chiesa della Madonna del Carmelo e dirigendosi spedito verso il punto più insidioso e ansiogeno: la cosiddetta "curva pericolosa", un’arteria a gomito minacciosa e rischiosissima. Adrenalina e tensione, flash e volti tiratissimi. Il Capovara imposta, detta ritmi e tempi di manovra. I portatori eseguono e... sperano. La Vara barcolla, trema, si fa pesantissima, poi svolta bruscamente: è fatta! Tutta la collina tira un sospiro di sollievo: ormai il peggio è alle spalle. Non resta che portare a termine la Calata, completando il percorso (lungo più o meno un chilometro) in sei minuti circa, secondo più secondo meno. Il gruppone dei portatori, con Filippo sulle spalle, si ferma alla "Prima Croce", ultimo intermedio prima del grande arrivo in piazza Vittorio Emanuele, in pieno centro. Poggiati i braccioli sui cavalletti, gli abbracci prendono il sopravvento sull’angoscia, mentre un addetto riconsegna al Santo il "suo oro", conservato con cura durante l’anno. Calatabiano, ancora una volta, ha superato la sua personalissima prova di forza e fede. Si riparte col sorriso, accompagnati dalle note festose della banda musicale. Il "Siriaco", trionfante, scende gli ultimi gradini per poi dirigersi verso la chiesa Maria Santissima Annunziata, non prima, però, di aver onorato le origini dei calatabianesi, compiendo un particolare rito: un paio di passi indietro in direzione "Marzacchina", antica contrada nella valle dell’Alcantara in cui, in passato, Filippo stesso veniva festeggiato. L’arrivo in piazza è un’esplosione di vita. Un fiume di persone investe calorosamente i portatori, che conducono il Santo in Chiesa Madre, meta conclusiva di questo avventato quanto commovente atto d’amore secolare. Il nobile "agirino" resterà quasi tutta la notte a disposizione dei tanti fedeli e devoti, non solo di Calatabiano, accorsi in suo onore. Fino al pomeriggio seguente (giorno della festa cittadina), quando il Santo, dopo la solenne celebrazione del mattino alla presenza delle autorità religiose civili e militari, inizierà il suo giro per le vie della città, non più portato a spalle, ma su un fercolo munito di ruote. Una processione lenta e lunga, che durerà fino a notte fonda. Rientrato in Chiesa, Filippo attenderà sette giorni tra i suoi concittadini, per poi ritornare in cima al Monte Castello.
Di Salvo Trovato